La mossa del cavallo

Pensare l’efficacia

Posted in Uncategorized by lollipop on dicembre 21, 2009

In Occidente gli strateghi cercano azione, in Cina cercano pendenza:

Lo stratega viene invitato a partire dalla situazione, non da una situazione quale potrebbe essere preliminarmente modellizzata, ma dalla situazione in cui ci si trova e all’interno della quale si tenta di scoprire dove risiede il potenziale e come sfruttarlo.
L’immagine privilegiata dai trattati di strategia cinesi ci rinvia un’esperienza assai comune, senza che venga chiamato in causa alcunchè di misterioso. Traducendo il secondo termine con “potenziale della situazione” intendo riferirmi a quello che da noi, nella fisica classica, viene definito “teorema del potenziale della situazione”. Prendiamo, per esempio, un caso tipico: se raccogliamo una certa quantità d’acqua alla sommità di una pendenza, costruendo uno sbarramento per trattenerla, potremo calcolare, in funzione della massa dell’acqua e dell’inclinazione della pendenza, la forza con la quale, nel caso si aprisse una falla, l’acqua scenderebbe, portando con sé tutto ciò che si trova sul suo cammino. È esattamente la stessa immagine che troviamo sul versante cinese. Ma sul versante europeo, come si può constatare, se ne ricava un teorema della fisica, il teorema del potenziale della situazione, mentre sul versante cinese l’immagine viene sfruttata dal punto di vista della strategia. Il grande generale sarà infatti proprio colui che è sempre in grado di trovare una pendenza sotto di sé: egli vedrà allora scorrere le sue truppe come l’acqua che segue la pendenza del terreno, senza sforzo.

Ed in un libro così, non poteva mancare un riferimento al go:

(Pagina 81)
Prendiamo per esempio il gioco del go che, diversamente dagli scacchi, è adatto a illustrare, nel suo modo di operare, lo scarto che separa le diverse concezioni (si pensi alla frase di Leibniz citata all’inizio del libro: “I loro stessi giochi differiscono dai nostri”). Chiunque abbia avuto occasione, anche fuggevolmente, di giocare a go, sa benissimo come lì i combattimenti avvengano non per scontri frontali ma attraverso “attrazioni” e “repulsioni” (come il tracciato nell’arte della scrittura o della pittura in Cina), in seno a rapporti di forza ambigui e malleabili, naipolabili, con l’attacco che parte da lontano e procede per vie oblique. In una simile strategia, la priorità è attribuita alle circonvolzuioni complesse e agli aggiramenti. In mancanza di un obiettivo predeterminato, visto che non esiste né un pezzo principale da annientare né una zona sensibile da conquistare, le prime pietre, disperse, stabiliscono un campo di influenza che disegna, organizzandosi, un territorio potenziale in cui la mia influenza ha la possibilità di concretizzarsi. Connettendosi progressivamente, queste pietre renderanno alla fine un territorio solido e duraturo. Anche nel gioco, l’obiettivo non è di distruggere il mio avversario, di eliminarlo (scacco matto!), ma io lo combatto per sopravvivere più a lungo, servendomi di lui nel mentre si opera contro di lui.

Francois Jullien

Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente

Editori Laterza 2005

Nelle mani del destino

Posted in Altra cultura by lollipop on dicembre 14, 2009

Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attacare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi. Durante la marcia si fermò a un tempio shintoista e disse ai suoi uomini: “Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremop, se viene croce perderemo. Siamo nelle mani del destino”. Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e getto’ una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà. “Nessuno può cambiare il destino” disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia. ”No davvero” disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt’e due le facce.

Tratta da “101 storie zen” a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps. Adelphi.
All’inizio questa storia mi è parsa appartenere alla categoria dei post sul caso, ma a pensarci bene, non si tratta di un altro esempio del paradosso del baro?

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Bad beat

Posted in Poker by lollipop on ottobre 8, 2009

bad beatGiocando a poker può capitare di perdere un grosso piatto in cui si era favoriti dal calcolo delle probabilità, perché l’avversario pesca una delle poche carte che può fargli ribaltare la situazione. In questo caso si parla di “bad beat” che è l’incubo di molti giocatori, non solo per il valore della mano in sé, ma anche perché questo colpo sfortunato tende ad avere influenze psicologiche che danneggiano anche il gioco successivo.

Ian Taylor e Matthew Hilger, nel loro “Poker Mindset” evidenziano quattro fasi nell’evoluzione di un giocatore in rapporto alle “bad beat”: la rabbia, la frustrazione, l’accettazione, l’indifferenza.

Non ci vuole chissà quale spirito di osservazione per notare che si tratta di quattro fasi che hanno a che fare con tutti i tipi di “bad beat”, non solo a quelle del gioco del poker.

E voi, nei confronti della vostra personale bad beat, in che fase vi trovate?

Fase 1 – Rabbia

La reazione iniziale del giocatore è di adirarsi. (…) Questa rabbia potrebbe scaricarsi su numerosi obiettivi possibili, a seconda di cosa è accaduto nella mano. L’obiettivo più comune è l’avversario. Soprattutto se il giocatore crede di aver perso il piatto a causa del brutto gioco di questo. Ad esempio, l’avversario completa un progetto improbabile quando invece il gioco corretto sarebbe stato quello di foldare.

Molti giocatori sfogheranno la rabbia verbalmente, correggendo e sminuendo l’avversario che gioca male. (…)

Se perdesse il piatto a causa delle brutte carte (ad esempio, al flop fa scala ,a perde con un full) il giocatore sfogherebbe la sua rabbia da qualche altra parte. (…) I giocatori più diplomatici daranno semplicemente la colpa della loro sfortuna al destino, agli dei del poker o a qualsiasi altra divinità in cui credono.

I giocatori nella fase 1 si mettono nelle condizioni di soffrire ogni volta che perderanno un piatto. Spesso inizieranno a “andare su tutte le furie”, condizione in cui il giocatore va in tilt giocando in modo troppo loose o troppo aggressivo. Cercheranno anche di pareggiare i conti con l’avversario che li ha battuti o continueranno a giocare finché non riavranno i soldi che hanno perso.

È molto difficile essere un giocatore di successo se vi trovate alla fase 1.

Fase 2 – Frustrazione

I giocatori nella fase 2 hanno imparato a rimuovere le emozioni più distruttive dalla propria reazione quando perdono un grosso piatto. Perderli sarà comunque doloroso, ma questo dolore si manifesterà più sotto forma di frustrazione che di rabbia. I giocatori in questa fase saranno frustrati dalla casualità del poker. Non faranno che pensare ai “se solo…” della mano.

Il problema per i giocatori alla fase 2 è che si fissano ancora sui risultati nel breve termine. (…) I giocatori frustrati comprendono le realtà del poker, solo che non le hanno ancora accettate. (…) Senza dubbio potete essere bravi giocatori alla fase 2, ma il vostro atteggiamento vi ostacolerà. Anche se non sarete inclini ad infuriarvi come i giocatori alla fase 1, comunque sbaglierete gioco molte volte a causa della frustrazione, e sarete soggetti ai tilt…

 Fase 3 – Accettazione

I giocatori alla fase 3 capiscono e accettano la realtà del poker… Comprendono che il gioco implica molta fortuna nel breve termine e come risultato sono destinati a perdere a volte dei grossi piatti. Se vengono battuti da un giocatore scarso, che riesce a portare a termine un progetto in extremis, tendono a non reagire male perché sanno che nel lungo periodo, vinceranno soldi quando i loro avversari cercheranno di chiudere progetti non vantaggiosi.

Non c’è bisogno di dire che i giocatori nella fase 3 non si fanno influenzare dai risultati dei piatti … hanno imparato a guardare in prospettiva i risultati nel breve termine e a concentrasi su ciò che è pi importante.

I giocatori nella fase di accettazione vanno meno incontro alla possibilità di andare in tilt rispetto a quelli nella fase 1 o 2. Sanno che guadagneranno per gli errori dei loro avversari anche se perderanno quella singola mano. (…) La fase 3 è un buon atteggiamento quando si perdono i grossi piatti. In questa fase avrete tutte le possibilità di essere un bravo giocatore e infatti è questo l’atteggiamento che i giocatori che hanno più successo imparano ad adottare.

 Fase 4 – Indifferenza

Per raggiungere la fase 4 bisogna essere un giocatore estremamente disciplinato con un notevole autocontrollo, pochissimi giocatori ci riescono. Nella fase 4, un giocatore non registrerà nessun tipo di ansia per aver perso un grosso piatto. Invece di provare rabbia, frustrazione o persino accettazione della mano, si concentrerà totalmente su come hanno giocato i suoi avversari e su quello che può imparare dalla mano. Che perda o che vinca è un dettaglio irrilevante. Alla fase 4 i giocatori capiscono che l’unica cosa che conta nel poker è il lungo termine. Il risultato di una mano è irrilevante e non vale nemmeno la pena pensarci. Per loro, l’unica cosa che importa nella singola mano è se hanno preso le decisioni giuste. Se l’hanno fatto, allora è stata una buona mano. I giocatori nella fase 4 hanno l’atteggiamento perfetto verso la perdita dei grossi piatti. Se mai andranno in tilt, non sarà certo per i risultati nel breve termine. Questo li pone enormemente in vantaggio rispetto ai giocatori che non riescono ad adottare questo atteggiamento.

Immagine di evanwork tratta da flickr.

Empatia

Posted in Altra cultura, Scacchi by lollipop on ottobre 6, 2009

CA93VPHJL’empatia è la capacità di comprendere  cosa sta provando un’altra persona (o perlomeno di focalizzarsi sul suo mondo interiore). Il termine deriva dal greco “empateia” composto da en, “dentro” e pathos, “sentimento”.

L’empatia non va confusa con la comprensione intellettuale, che si concentra sui fatti, sulle esatte dinamiche degli avvenimenti. Con l’empatia si legge tra le righe, si colgono gli indizi emozionali, i segnali non verbali e soprattutto si lasciano da parte spiegazioni o schemi di attribuzione di significato preconfezionati.

Secondo Geoffrey Miller (The mating mind) “L’empatia si sarebbe sviluppata perché mettersi nei panni dell’altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l’uomo è in continua competizione con gli altri uomini.”

In biologia le ricerche sui meccanismi che regolano l’empatia sono molto attive, come nel caso dei neuroni-specchio, che sono cellule che si attivano sia quando un’azione viene compiuta che quando viene osservata da un altro individuo. In ogni caso, una spiegazione definitiva ancora manca.

 Secondo Paolo Legrenzi (Come nascono le nuove idee – Il Mulino) l’empatia è la capacità di andare sulla stessa lunghezza d’onda delle menti altrui. È la capacità di vedere dentro la mente delle persone con cui interagiamo per prevedere come si comporteranno.

Continua Legrenzi: “Nel mondo delle imprese questo è pane quotidiano. Che cosa avranno pensato di fare i concorrenti e che cosa pensano che noi faremo? E noi che cosa pensiamo che loro pensano di noi. Chi sa meglio decifrare questo gioco di specchi è colui che sa cogliere le più ghiotte opportunità in un mercato competitivo.”

Ora a dir la verità non sono sicuro che quando un manager seduto nel suo ufficio cerca di prevedere cosa sta pensando un altro manager di una ditta concorrente in un altro punto del pianeta stia usando le sue capacità empatiche. Più correttemente si tratta di capacità di previsione intellettuale come specifica più avanti lo stesso Legrenzi, quando inizia a usare il termine inglese “insight”. Il manager mette da parte i propri gusti e le proprie simpatie, per scegliere l’azione che si presume avrà maggiore successo, in base a quanto si assume sceglieranno di fare gli altri (clienti o concorrenti).

Anche quando ci siede ad un tavolino per giocare a scacchi (ma potete pensare praticamente ad ogni altra cosa) l’empatia può essere molto importante, e alcuni giocatori ne hanno fatto il loro marchio di fabbrica (un esempio ovvio è quello di Lasker) ma tutti i giocatori moderni cercano di rendersi invisibili agli occhi dei loro avversari. Qualche tempo fa avevamo pubblicato una news in cui Anand sottolineava l’importanza di nascondere i propri sentimenti (Chess is a form of acting).

L’empatia è importante anche a fine partita, quando si tratta di capire cosa sta pensando il vostro avversario che vi ha appena regalato un punto intero cappellando in una posizione vinta. …. In quel caso magari la vostra migliore decisione strategica potrebbe essere quella di offrirgli una birra…..

Salute!

Riguardo all’immagine scelta, segnaliamo che Gem, personaggio che appare in una puntata del telefilm Star Trek (“L’empatica”) ha la capacità di guarire le ferite altrui trasferendole sul proprio corpo.

Il contrattacco

Posted in Altra cultura by lollipop on gennaio 22, 2009

cavalcare-tigre
E la verità è che si dovrebbe dire: “La miglior difesa è il contrattacco (sull’attacco dell’avversario)”.
Ci sono innumerevoli situazioni strategiche in cui si può dimostrare la verità di questo concetto, che in alcuni casi può anche essere trasformato in qualcosa come “il miglior attacco è il contrattacco sull’attacco dell’avversario”.
È quello che ad esempio sostiene Giorgio Nardone nel suo libro del 2003 “Cavalcare la propria tigre” (pubblicato da Ponte alle Grazie).

(…) non si deve attaccare per primi ma aspettare la prima mossa del contendente e sorprenderlo con una contromossa. Infatti “la miglior risposta la si ha quando questi ha preso l’iniziativa e non può badare troppo allo stare in guardia” (Lee, 1977). Questo concetto marziale, che come vedremo si applica a qualunque interazione umana e non solo al combattimento, mette in evidenza il vantaggio dell’aspettare tranquilli e dell’immediata risposta all’attacco. Non esiste infatti attacco che non possa essere bloccato o addirittura trasformato in contrattacco. Chi attacca inevitabilmente è costretto a scoprirsi, esponendosi a una pronta e idonea risposta. Certo tutto dipende dall’abilità e capacità di controllo di chi si difende: è molto più facile attaccare che difendersi da un attacco. Ma se il difensore è abile, la sua difesa diventa il migliore degli attacchi. (…)

Non crediamo che questa interpretazione rafforzata sia sempre corretta, in quanto ci sono situazioni strategiche in cui indubbiamente la parte in vantaggio deve attaccare se vuole conservare la sua supremazia. Dire che “Non esiste infatti attacco che non possa essere bloccato o addirittura trasformato in contrattacco” è corretto in una situazione di equilibrio, e ad onor del vero questo sembra dire (almeno implicitamente) anche Nardone, che infatti inserisce queste considerazioni in un capitolo in cui si discute dell’arte di “partire dopo per arrivare prima”, sintesi moderna dei due stratagemmi “Sbatti l’erba per snidare i serpenti” e “Costringi la tigre a lasciare le montagne. In pratica l’idea è quella (in una situazione di equilibrio) di mostrarsi debole invitando l’avversario ad attaccare per poi reagire con un rapido contrattacco.
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1. La miglior difesa è l’attacco?

La miglior difesa è l’attacco?

Posted in Altra cultura by lollipop on gennaio 19, 2009

Uno dei detti strategici più diffusi è questo: “La miglior difesa è l’attacco”.
Proviamo a chiederci, ma è vero? Si tratta di un principio o piuttosto di un luogo comune?

Cominciamo col domandarci quale può essere il reale significato strategico di questo modo di dire:
1) La miglior difesa è l’attacco perché se il tempo della “sfida” lo passi in attacco non avrai neanche bisogno di difenderti. Detto in un altro modo, se stai attaccando il tuo avversario deve difendersi, non può attaccare e tu non hai bisogno di difenderti.
2) Quando attacchi sii preparato a fare talmente tanti danni, che non avrai bisogno di soffermarti più di tanto su quelli che subisci quando è il tuo avversario che attacca.
3) È una questione di iniziativa, è meglio fare la prima mossa, invece che aspettare l’attacco dell’avversario. In questo caso “attaccare” può anche voler dire mobilitarsi per impedire gli attacchi dell’avversario.
4) È una questione di carattere generale, per quanto sia importante la difesa, ad un certo punto per vincere (in quasi ogni contesto) prima o poi devi attaccare.
5) È una questione di carattere generale, attaccare è più facile che difendersi.
6) Se dichiari di seguire questo “principio” il tuo avversario consciamente o incosciamente il tuo avversario si preparerà per difendersi, così tu effettivamente potrai dedicarti all’attacco.

Queste traduzioni in azioni strategiche sono spesso simili e non sono necessariamente in esclusione l’una con l’altra. Possono essere il significato da adottare in un determinato momento di una lotta, o in un determinato contesto di regole.

Ma c’è qualcosa che non torna, più ci pensiamo, più ci ripetiamo, la miglior difesa è l’attacco, più ci sembra un principio falso, o al più (ad esempio nel caso del significato 4) inutile. Non puoi sempre attaccare, e non è detto che i tuoi attacchi abbiano la stessa efficacia, e si l’iniziativa è importante, ma in un situazione di equilibrio un attacco non giustificato non può avere succcesso. Abbiamo detto “falso”, ma forse avremmo potuto dire quasi vero ma fondamentalmente falso.
Questo piccolo indizio ci avvicina alla verità….
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Il gioco dell’asta di un dollaro

Posted in Economia, Matematica by lollipop on dicembre 28, 2008

oneusd_both_sidesSapersi fermare al momento giusto è una grande capacità. Esistono numerosi esperimenti di psicologia comportamentale che illustrano come invece gli esseri umani si fanno trascinare in spirali da cui non riescono più a uscire.

Uno dei più famosi di questi giochi è quello descritto negli anni Settanta del secolo scorso da Martin Shubik, professore della Yale University.

Di questo gioco, ne parlano (solo riferendosi alla nostra biblioteca) almeno Avinash Dixit e Barry Nalebuff in “Io vinco tu perdi”, Laszlo Mero in “Calcoli morali” e Alberto Gandolfi in “La foresta delle decisioni”.

Il gioco è molto semplice: viene messa all’asta una banconota da un dollaro. Prezzo iniziale di un cent, e regola aggiuntiva che il banditore trattiene anche la cifra proposta dal secondo offerente. Shubik nelle sue pubblicazioni ha fatto notare che in base ai suoi esperimenti in occasioni di “raduni sociali” il biglietto da un dollaro veniva venduto in media per 3.40 dollari.

Il gioco è stato riproposto con numerose varianti in situazioni controllate e i risultati sono stati grossomodo sempre gli stessi.

Uno dei punti più importanti è quando il prezzo del dollaro supera i 50 centesimi, a quel punto è probabile che qualcuno si accorga che il banditore inizia a guadagnarci, ma qualcuno si trova a pensare, “posso ancora guadagnarci anch’io”, offrendo meno di un dollaro. Ma poiché c’è qualcuno che non vuole perdere la sua offerta, è molto probabile che si superi la soglia di un dollaro.

Entra in gioco il fenomeno psicologico dell’“Ho investito troppo per lasciare” (il titolo di un libro di A.I. Teger è “Too much invested to quit”, mentre un capitolo del libro di Gandolfi si intitola “Ho investito troppo per abbandonare proprio adesso”).
Laszlo Mero fa notare numerosi esempi del gioco nella vita quotidiana: indecisi tra due decisioni, ne prendiamo una e poi rimaniamo ad essa legati anche quando è chiaro che sarebbe preferibile cambiare. Aspettiamo l’autobus sempre più a lungo, anche se siamo in ritardo e non ci decidiamo a prendere un taxi, guardiamo un film noioso, e più lo guardiamo e più ci sentiamo in dovere di arrivare fino alla fine. Anche gli scioperi spesso seguono la logica della vendita all’asta di un dollaro, così come le gare d’appalto.

Il gioco della scommessa di un dollaro ha due soluzioni. Una è la collaborazione. I giocatori si accorgono subito del trucco insito del gioco, qualcuno offre un cent e nessuno rilancia. Questa soluzione è proposta da Dixit e Nalebuff: “Potreste pensare che questa storia non fa che comprovare la stoltezza degli studenti di Yale. Ma l’escalation degli arsenali di armi nucleari delle superpotenze è forse diversa? Entrambe sono incorse in costi di migliaia di dollari alla ricerca della vittoria del dollaro. La collusione, che in questo caso significa convivenza pacifica, rappresenta una soluzione molto più redditizia”.
L’altra soluzione, proposta da Laszlo Mero, consiste nell’affidarsi al caso. Ogni giocatore dovrebbe scegliere la sua offerta tra le opzioni ragionevoli in maniera casuale e poi non accettare il gioco dei rilanci.

Insomma l’unica cosa da non fare è quella di scivolare nella sindrome di Macbeth….

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A volte arrendersi è razionale

Posted in Sport by lollipop on dicembre 22, 2008
Sir Alex Ferguson

Sir Alex Ferguson

Ma a volte le proporzioni della sconfitta sono di proporzioni tali che l’unica cosa da fare sembra quella di arrendersi, o no? Come al solito molto dipende dagli stili di gioco e dalle culture. Ci piace ancora una volta citare un passo del libro di Gianluca Vialli e Gabriele Marcotti “The italian job”:
A volte arrendersi è razionale: è meglio ritirarsi indenni dalla battaglia, conservare le forze e combattere un altro giorno. Mi chiedo sempre cosa passi davvero per la testa dei giocatori in situazioni nelle quali, per esempio, sono sotto 3-0 e accorciano le distanze. Li vedi sempre recuperare in fretta il pallone in fondo alla rete e correre a metà campo per ricominciare a giocare, nella speranza di una sensazionale rimonta. Me lo chiedo perché mi domando se sia razionale ricominciare a giocare in fretta. Certo hai più tempo per segnare di nuovo. Ma offri anche più tempo all’avversario per fare un altro gol. E, di sicuro, se si parla di limitare i danni, è meglio perdere 3-1 piuttosto che 4-1.
(…)

Si tratta di un calcolo di probabilità. Di fare un’analisi dei costi e dei benefici: che rischi si corrono ad affrettare la ripresa del gioco? E questi rischi pesano di più del vantaggio che potrebbero derivare da un eventuale 4-2? Vale la pena cercare di segnare ancora rischiando di prendere gol? E va detto che quando si tratta di rischi, parliamo quasi esclusivamente dela reazione dei media e dei tifosi. Dal punto di vista dell’allenatore una sconfitta è una sconfitta. Ma nel caso dei giornali, della televisione e dei tifosi per strada o al bar, è un’altra storia. Per loro un 5-1 è un ‘umiliazione peggiore rispetto a un 4-1. Non è solo un’altra sconfitta.
Ed è per questo che ci basiamo sul calcolo delle probabilità. Wenger ritiene che sia naturale per francesi e italiani. Sorprendentemente, Sir Alex Ferguson, uno che di rado . almeno in pubblico – è sulla stessa lunghezza d’onda del francese, è d’accordo: “Penso che in Italia quando una partita è sul 2-0 tendiate a pensare che la squadra in svantaggio accetterà il fatto che non è in giornata” sostiene. “Per cui i giocatori tireranno i remi in barca, conserveranno le forze, penseranno alla prossima gara. È molto pragamtico come atteggiamento. In Inghilterra non accade mai. Proviamo sempre a rimontare. Non abbiamo quel pensiero razionale tipico di voi francesi e italiani. Non è il nostro modo di fare. (…)”

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Una sfida

Posted in Altra cultura, Libri by lollipop on dicembre 15, 2008

Dostoevskij nel 1876

Dostoevskij nel 1876


L’atto di salire in soffitta e buttare via la scala, per togliersi ogni via di fuga, non sempre avviene in maniera conscia. Ma in che altro modo spiegare le modalità con cui Dostoevskij ha scritto “Il giocatore”? Lo scrittore nell’estate del 1865, costretto dalle necessità aveva firmato un contratto con l’editore Stellovskij secondo cui avrebbe dovuto consegnargli un nuovo romanzo entro il novembre dell’anno successivo. Dostoevskij impiegò quest’anno e mezzo viaggiando per l’Europa, giocando e perdendo ingenti somme di denaro alla roulette, chiedendo prestiti agli amici e scrivendo per una rivista “Delitto e castigo”. E così, all’inizio dell’ottobre del 1866 Dostoevskij si trovò (o per meglio dire, aveva fatto in modo di ritrovarsi) in una situazione letteralmente senza vie d’uscita.
Ecco come la racconta Fausto Malcovarti nell’introduzione al libro, Garzanti X edizione, novembre 1992.

Il giocatore è il risultato di una sfida. Nel pieno del lavoro su “Delitto e castigo”, con consegne mensili e un ritmo di scrittura quasi insostenibile, Dostoevskij si trovò in una situazione disperata: stava per scattare il “contratto Stellovskij”. Entro il 1° novembre 1866, come si è detto, doveva consegnare all’editore un romanzo inedito: nel caso di mancata consegna, Stellovskij sarebbe stato libero di pubblicare, per nove anni e senza alcun compenso, tutte le opere del romanziere, edite e inedite. Non c’era scampo: ogni tentativo di procrastinare era stato inutile, bisognava scrivere, bisognava far fronte all’impegno.
Ecco come l’amico Miljukov racconta quei momenti così angosciosi per lo scrittore:
“A che punto siete del nuovo romanzo?” gli chiesi.
Dostoevskij si fermò davanti a me, fece un brusco gesto di sconforto con le braccia e rispose: “Non ne ho scritto neppure una riga!”. Questa affermazione mi lasciò sbalordito.
“Capite ora perché sono rovinato?”, mi disse biliosamente. “E allora che facciamo?”.
“Bisogna pur fare qualcosa!”, notai io.
“Cosa si può fare quando manca solo un mese al termine? Quest’estate ho scritto Delitto e castigo per il ‘Russkij Vestnik’ e per giunta quello che ho scritto deve essere ancora limato; ormai è troppo tardi: in quattro settimane non ce la faccio a scrivere un nuovo romanzo”.
Tacemmo. Mi sedetti al tavolo ed egli ricominciò a passeggiare per la stanza.
“Ascoltate”, gli dissi “non vi si può imporre un giogo per sempre, bisogna trovare una soluzione qualsiasi a questa situazione”.
“E quale soluzione? Io non ne vedo!”
“Mi ricordo”; proseguì, “Che mia avevate scritto da Mosca di avere pronta la trama di un nuovo romanzo”.
“Si, c’è, ma ve l’ho detto, finora non ne ho scritta neppure una riga”.
“Non si potrebbe fare così: raduniamo qualcuno dei vostri amici, voi ci raccontate ilsoggetto del romanzo, noi annoteremo le varie parti, divideremo in capitoli e scriveremo lavorando in gruppo. Voi poi controllerete e limerete le ineguaglianze e le contraddizioni che risulteranno. In collaborazione forse potremo fare in tempo: darete il romanzo a Stelllovskij e sfuggirete alle sue grinfie”.
“No”, mi rispose decisamente, “non firmerò mai col mio nome un lavoro altrui”.
“Allora prendete uno stenografo e dettate voi stesso tutto il romanzo. Penso che in un mese riuscirete a finirlo”.
DostoevskiJ rimase sorpreso e cominciò di nuovo a passeggiare per la stanza.
“Questa è un’altra soluzione, non ho mai dettato le mie opere, ma posso provare.. Vi ringrazio: è indispensabile farlo, anche se ignoro se ne sarò capace. Ma dove prendere uno stenografo? Conoscete qualcuno?”
“No, ma trovarlo non è difficile”.
Miljukov si rivolse al famoso insegnante di stenografia P.M. Ol’chin, che il giorno dopo inviò a Dostoevskij la più capace delle sue allieve, la ventenne Anna Grigoreva Snitkina che, come sappiamo, diventerà la nuova moglie dello scrittore.
Per ventisei giorni, dal 4 al 29 ottobre, lo scrittore e la stenografa lavorarono forsennatamente, sfidarono il tempo e la resistenza umana. Dalle 12 alle 16 dettatura: poi la Snitikina decifrava le sue note, Dostoevskij continuava la stesura del testo, l’ultima dettatura avvenne il 29 sera, l’ultima rilettura il 30. Il 31 ottobre, con un grosso quaderno sooto il braccio, Dostoevskij si presentò dapprima a casa di Stellovskij, che risultò essere in viaggio, poi all’ufficio della casa editrice, che rifiutò di accettare il manoscritto perché non esisteva nessun contratto legale a nome dello scrittore per un nuovo romanzo. Ultima tappa: il commissariato di polizia del quartiere in cui abitava Stellovskij, dove, tra lo stupore dei poliziotti, gli fu rilasciata regolare ricevuta del plico. Lo scrittore era salvo: e Il giocatore (titolo imposto dall’editore, che ritenne quello proposto dallo scrittore, Roulettenburg, troppo poco russo) uscì nel 1866 del III volume delle Opere complete, edizioni Stellovskij.

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Bruciare i ponti

Posted in Storia by lollipop on dicembre 3, 2008
Hernan Cortès

Cortes

Tra i vari esempi di eserciti che si negano (quasi sempre, sarebbe meglio dire “cui viene negato dai loro comandanti”) la possibilità di ritirarsi si può citare l’esercito normanno di Guglielmo il Conquistatore, che bruciò le proprie navi una volta approdato sulle coste d’Inghilterra, nel 1066. La stessa cosa fece Cortes nel 1519. Lui aveva una grande motivazione, fin da quando era arrivato nel Nuovo Mondo, nel 1504, si era messo in testa di voler conquistare il Messico, mentre i suoi 500 uomini pensavano a tornare a Cuba, alle loro famiglie, all’oro. Nelle loro teste c’era sempre una via di fuga, mal che fosse andata, sarebbero tornati a casa. Rendendo inutilizzabili le navi, facendole affondare o arenandole, Cortes modificò l’obiettivo dei suoi soldati. Cortes aveva portato i suoi soldati in un “campo di morte”, che raddoppia o triplica le forze dei soldati. Con le parole di Robert Greene, autore di “Le 33 strategie della guerra”: il mondo è governato dalla necessità, le persone cambiano atteggiamento solo se costrette a farlo.

Secondo la fonte citata da Avinash Dixit e Barry Nalebuff, “la distruzione della flotta (venne effettuata) non soltanto con la coglizione dell’esercito, ma anche con la sua approvazione, anche se su idea di Cortes”.

Secondo l’interpretazione di Robert Greene, invece, l’approvazione dell’esercito avvenne solo a fatto compiuto… “Quando li convocò, il loro umore era incattivito e ribelle. … Cortes si rivolse ai suoi uomini: ammise di essere responsabile del disastro aveva ordinato che si facesse così, ma ora non si poteva tornare indietro. Avrebbero potuto impiccarlo, ma erano circondati da indigeni ostili ed erano senza barche; divisi e senza un campo, sarebbero morti. L’unica alternativa era seguirlo a Tenochtitlan. Soltanto sconfiggendo gli aztechi e conquistando il Messico avrebbero potuto tornare a Cuba vivi…. I codardi che non se la sentivano di affrontare la sfida potevano slapare verso casa con l’unica imbarcazione rimasta. Nessuno raccolse l’invito, così anche l’ultima barca venne affondata.

Ancora Sun Tzu:

Dove puoi sopravvivere soltanto a condizione di combattere con il coraggio della disperazione, è territorio mortale… Porta i tuoi uomini su posizioni elevate senza via d’uscita, e vedranno la morte: pronti a morire, cosa non riusciranno a fare? È nelle situazioni disperate che ufficiali e soldati dimenticano la paura e dannno il meglio di sé. Senza vie di fuga, difendono il terreno con i denti. Impeganti a fondo, si battono a fondo. Senza alternative, lottano fino all’estremo.

Prosegue “Lasciare una via di fuga”, continua, con il titolo “Gioca per tre risultati”, dove vedremo come le strategie di bruciare i ponti e lasciare una via di fuga si applicano in un contesto scacchistico.